Capo di Pezza, Punta Trento e punta Trieste

Un anello nel cuore del Velino sulle creste di Punta Trento e Trieste


Ricordo spesso un bellissimo tour fatto tanti anni fa sulle creste Est del Velino, dai Piani di Pezza salimmo al Magnola su e giù per la Costa della Tavola e le Punte di Trento e Trieste; mi torna alla memoria la valle Majellama e l’estrema punta della cresta di costa Stellata da dove lo sguardo si infila completamente in quell’enorme canyon che serpeggia profondo tra il Cefalone ed il Magnola; era stato un inanellare chilometri su chilometri, ricordo una stanchezza che spezzava le gambe anche perché era uno dei primi grossi anelli concepiti, ricordo anche l’ebrezza che provai, nuova ed esaltante, per quei tempi. Troppe volte questo ricordo prendeva le sembianze di un nostalgico desiderio ed è per ciò che in questa tarda primavera ho provato a farlo ridiventare realtà. Marina non è mai salita su quei versanti, non aspettava altro che farlo, Giorgio col suo solito entusiasmo ha subito aderito e iniziato a consultare le carte per arrivare come al solito preparato in ogni dettaglio; peccato che non ha fatto i conti col destino e soprattutto con un incauto automobilista che non rispettando uno stop ha finito per buttarlo a terra; la caviglia sotto lo scooter e addio sogni di montagna. Solo danni superficiali, per fortuna, nulla di rotto, ma la convalescenza per una quindicina di giorni è inevitabile, per Giorgio è saltata l’escursione in terra abruzzese e per tutti la possibilità di percorrere l’intera cresta. Tutto il progetto basato sull’avere a disposizione due auto è svanito, ma non è andato completamente perso; le basi erano buone e potevano, con piccole variazioni sul percorso, riservare ancora possibilità interessanti. Carta alla mano ho ridotto il chilometraggio e rimodulato l’escursione sulla base della singola auto a disposizione: siamo arrivati su ruota fino a Capo di Pezza ( i cinque chilometri di sterrata carrozzabile dei Piani di Pezza sono sempre più devastati da enormi crateri, tra poco con una berlina non si passerà più) dove un bel divieto impone di parcheggiare e lì saremmo ritornati dopo un anello che vado a descrivere. Invece di prendere il sentiero n°1 che sale al rifugio Sebastiani, il più classico ed il più frequentato e da cui poi torneremo a fine giornata, ci siamo tenuti sulle labili tracce di carrareccia che si discostano verso sinistra e che si inoltrano nella radura. Nessuna segnalazione, ne bandierine, ne cartelli, solo tracce parallele di pneumatici si inoltrano verso il bosco e dentro la valle tendendosi a sinistra; punta Trento dal fondo della radura iniziava a intravedersi in alto sulla cresta. il bosco è molto rado, continuiamo a seguire le tracce dei veicoli che ci si sono addentrati, consultando la carta il sentiero piega un po’ a sinistra e sale sulla valle parallela, senza nome, a quella di valle Cerchiata . Infilarsi nella valle non è difficile ma tardiamo a trovare un sentiero che abbia i connotati precisi ed affidabili; vaghiamo un po’ all’imbocco della valle, dentro il bosco finché un segnale su una pietra a terra ci fa intuire di essere sulla giusta strada. Il vallone si restringe dove troviamo una fontana, poi una vecchia cisterna ed infine le inequivocabili tracce di un sentiero. Bandierine bianco rosse rade sugli alberi confermano che ci siamo. Il sentiero si inerpica poi tra il bosco, nel fondo del fosso e poi sul lato destro dello stesso, nulla lascia più dubbi, il sentiero è sempre meglio marcato e pulito. Saliamo con strette svolte fino a quota 1800 dove gli alberi si diradano lasciando il posto a valli interne incassate tra aspre gobbe pietrose. Il costone della Cerasa fa sponda lungo la salita, il sentiero rimane sempre ben marcato e la traccia battuta; saliamo senza dubbi, a tratti su lingue di neve che tardano a sparire e per linee logiche fino al vado di Castellaneta, già oltre i 2000 metri, dove il panorama si apre sull’altro versante, sulla valle delimitata dalla costa Cerasa e da costa Stellata chiusa in fondo (è solo una illusione perché gira sotto lo sperone sulla destra) dalla mole del Magnola. Non rimane che salire i ripidi cento metri di dislivello dello spigolo che abbiamo sulla destra fino alla prima delle tre cime che incontreremo, Capo di Pezza. Che bello rivedere da lassù la valle Majellama e quella del Bicchero che della prima è una continuazione fin sotto le balze del monte omonimo; e il Magnola, e tutto il Velino di fronte e la cresta delle punte Trieste e Trento fino ad intravedere il Costone. Erano passati anni ma era come se avessi calcato quelle dorsali il giorno precedente. In cresta c’è neve sul crinale verso il versante Est, a tratti fin sulla sommità tanto da costringerci a scendere leggermente nel versante opposto, verso la valle del Bicchero , quando questa era troppo alta ed esposta a probabili ed instabili cornici. Tratti erbosi alternati a piccoli tratti di intrigante cresta rocciosa mentre risaliamo la dorsale di Punta Trieste. E’ libera dalla neve, ha un ometto in cresta dove ci fermiamo un attimo per mangiare qualcosa, approfitto per fare qualche foto, siamo così centrali rispetto al gruppo del Velino che togliere lo sguardo di dosso a quella piramide è davvero difficile. Ripartiamo subito spinti da un vento insorgente e fastidioso, per trace di sentiero e molto per intuito, scendiamo il roccioso piano verso la valle del Bicchero, scendere direttamente la cresta fino alla sella sarebbe quasi impossibile, il sentiero lo riprendiamo molto sotto, intuiamo la traccia, non ci sono segnali. I ragazzi che abbiamo incontrato su Punta Trieste sono davanti a noi, li raggiungiamo dopo aver superato la sella e ripreso a salire; evitiamo lingue di neve che sembrano in bilico sui pendii sotto le balze rocciose e arriviamo in vetta dove ad accoglierci ci sono tre dei ragazzi che ci precedevano ed una posticcia croce costruita con dei tronchi legati fra loro ed incastrati nel classico omino di vetta. Le nuvole insistono insieme al vento che aumenta in intensità; scambiamo con i ragazzi cortesie reciproche per le classiche foto di vetta e dopo aver studiato la parte restante del percorso riprendiamo veloci verso il rifugio Sebastiani che speriamo aperto e pronto a sfamarci. Da Punta Trento, la sella fino al Costone, ed ancora di più, i versanti che scendono a valle, sembrano colmi di neve ma non disegno una situazione impegnativa, tracce di calpestio in discesa sono evidenti, se sono passati, mi dico, passeremo anche noi. A colle dell’Orso arriviamo in venti minuti ma mentre pensiamo che il più è fatto e mentre l’adrenalina già scema nell’inevitabile rilassamento di quando si sente che l’escursione è alle fasi finali, troviamo la sorpresa di cornici insistenti e bagnate e di versanti ancora più ripidi di quanto intuito. Forse era il caso di scendere dentro valle Cerchiata subito dopo aver toccato il piano sulla sella, quando ancora il pendio della cresta che scende da Punta Trento non ha terminato la sua corsa verso il basso. Ma siamo andati troppo oltre, verso quelle tacce intraviste dalla cima. Il calpestio visto dall’alto c’è, mi affaccio, nulla è consistente e affidabile, è ripido, c’era da oltrepassare un cornicione, piccolo ma di certo instabile; troppo pericoloso, torno per un po’ indietro, fin dove i cornicioni spariscono. Sondo la neve, tiene anche se non è ghiacciata; decido di scendere nonostante il parere titubante di Marina, non ho ramponi e piccozza, chiudo i bastoncini per usarli come arpioni da infilare nella neve. Mi volto spalle a valle ed inizio a scendere, calcioni profondi nel pendio ad infilare le punte degli scarponi nella neve, il bastoncino infilato in verticale a cercare di trattenere ogni eventuale scivolata . Nessun problema, profonde scalette permettono di scendere con sicurezza, i bastoncini, complice una neve molle, sostituiscono egregiamente la piccozza. Marina, un po’ perché ero ormai partito un po’ perché si accorge che scendere è facile si convince e mi segue. Per un tratto la aspetto ma subito si rassicura e scende anche lei veloce. Un tratto in verticale e poi un piccolo traverso fino a trovare un piccolo ghiaione scoperto. Rimane ancora da scendere perpendicolari verso valle, ma perderemmo quota, oppure impegnarsi in un noioso lungo traverso fino alle tracce del sentiero che corrono lungo il fianco del Costone; Marina si sente più tranquilla nel traverso, è duro e noioso fare una traccia sicura nel versante ripido ma in una ventina di minuti siamo fuori. Risaliamo lo sperone fino a scoprire il rifugio, per fortuna aperto e come siamo abituati a vederlo, nella sua splendida posizione assolata a dominare le due piane. Ci sono solo i gestori, al riparo dal vento riusciamo anche a mangiare all’esterno, spostiamo il tavolo al sole e … il tempo avrebbe anche potuto fermarsi. Lasciamo il rifugio dopo una quarantina di minuti, non prima di esserci fatti rapire da uno dei panorami più belli dei nostri Appennini; altrettanti o poco più ne servono per scendere fino ai Piani di Pezza.